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Recensioni

Recensione

di Maria Cristina Silvera

 

Molto è già stato scritto sull’opera di Carlo Zocchi e sul suo percorso artistico, da quando negli anni Settanta si è scoperto pittore e ha cominciato a esporre le sue opere, incontrando da subito il favore del pubblico. Quando gli si chiede di raccontare tutto dall’inizio, trova un punto di partenza in alcuni meticolosi disegni giovanili fatti a matita o con la biro che conserva in ordinate cartellette.

Carlo Zocchi pittore è un autodidatta: i suoi maestri li ha trovati nei musei e nelle mostre che da sempre frequenta assiduamente. All’inizio condivise impegno e passione con altri pittori esordienti che si ritrovavano per lavorare insieme e parlare d’arte in via De Sanctis, una strada alla periferia di Milano. Iniziò dipingendo qualche paesaggio nei modi dell’Impressionismo, ma il suo stile si è affermato nella rappresentazione della realtà sociale, come il lavoro nelle fabbriche e nei porti o la povertà estrema delle persone di paesi lontani osservate durante i suoi viaggi. La Sosta, il Comizio e la Casa Rossa sono opere che ben rappresentano questa fase della sua pittura. È evidente come nella sua poetica emerga con forza un’esigenza etica, un sentimento dell’arte come comunicazione e messaggio, principi che il pittore è ben lungi da risolvere coi mezzi di un banale realismo. Zocchi sa che non basta rappresentare con fedeltà un oggetto, ma che è necessario usare i mezzi della pittura, la forma e il colore, per stimolare nello spettatore la percezione di un messaggio, coinvolgendo la ragione e i sentimenti.

Questo è stato anche l’insegnamento di Gauguin, che nel 1895 aprì strade nuove all’arte del Novecento con questa affermazione: “Stimolare l’immaginazione... soltanto attraverso la misteriosa affinità che esiste tra certe combinazioni di linee e colori e la nostra mente”. Zocchi realizza i suoi quadri con il colore, attraverso una sapiente costruzione di forme in larghe campiture dai toni contrapposti. Non perde mai il contatto diretto con il vero, ma il suo realismo è ricco di suggestioni simboliste. Grazie all’assidua frequentazione dei musei, ha assorbito e rielaborato i linguaggi del post-impressionismo e delle avanguardie del primo Novecento: da Gauguin ai Fauves, dall’Espressionismo al Cubismo. Linguaggi da cui non si può prescindere. Credo anche che abbia guardato con molto interesse ai pittori del Cubismo Orfico e ai loro dipinti fortemente evocativi basati sul dinamismo della luce e sulla scomposizione del colore. Da loro acquisisce la capacità di sfaccettare la luce in prismi e dare all’immagine la trasparenza del cristallo. Lungo questo percorso ha trovato i suoi padri, in modo naturale, senza maestri e senza imitare lo stile di qualcuno.

Nel corso degli anni Ottanta Zocchi passa gradualmente da un realismo descrittivo a una rappresentazione figurativa rielaborata dentro uno schema formale, fino alla perdita dell’oggetto in sé. In questa fase sono gli alberi di sughero della Sardegna ad interessarlo, con le loro forme contorte e i tronchi feriti e scorticati, a cui lo sguardo del pittore si avvicina a tal punto da confondere la visione. In questo caso un frammento vive di vita propria, indagato, sezionato fino alle viscere in dipinti risolti in superficie senza essere piatti, che comunicano l’inizio “di un percorso spirituale che si apre sulla scena dell’invisibile”, come scrive Antonino De Bono.

Eccoci alla mostra attuale che espone le opere dell’ultimo periodo della pittura di Carlo Zocchi, il suo periodo astratto, che si rafforza dopo l’incontro rivelatore con la pittura di Afro Basaldella e del gruppo degli Otto. “Già sentivo l’astrattismo mentre facevo quadri figurativi”, mi dice, e “sentivo il bisogno di liberarmi dalla costrizione del soggetto”. In tutte le sue parole si sente che non può tornare indietro, che questa pittura è davvero per lui il raggiungimento di una meta. “Non ha senso la distinzione tra astratto e figurativo… il pittore avrà sempre e soltanto presenti i ritmi, i colori, le forme mai il soggetto”, dichiara Afro (Basaldella), mentre Lionello Venturi spiega la poetica del Gruppo degli Otto parlando di astratto-concreto, ovvero di un’astrazione che non rinnega la relazione con la natura e l’interiorità dell’artista. Zocchi si ritrova in questa poetica. Per questo i suoi quadri hanno titoli che spesso rimandano alla realtà, ma a volte vi rinuncia e allude solo alle forme o ai colori. Questo è il segno della crisi dell’arte europea che non trova più sufficienti attrattive nella realtà e dove tuttavia molti pittori cercano ancora uno stimolo per reagire attivamente alla ricerca di una vitalità perduta.

Violoncello è una forma reinventata di uno strumento musicale, un violoncello fatto “a modo mio”, mi dice Zocchi, ricordando l’importanza di avere incontrato la musica ancor prima della pittura, quando era bambino. Incontro importante per il futuro di pittore, seppure del tutto legato al caso fortuito di una zia che gli regala un violino. Saranno poi la frequentazione di una bottega di falegname che si dilettava nel costruire strumenti musicali e l’insegnamento delle prime nozioni di armonia da parte del maestro della banda di Cuggiono ad appassionare Zocchi alla musica, e sarà per sempre. Armonia è il titolo di un altro quadro: una tastiera di pianoforte è adagiata su un mondo di forme collocate nello spazio con grande equilibrio, mentre uno sfondo azzurro e trasparente suggerisce una profondità siderale.

In Vele, Vulcano, Dune il riferimento alla natura è dichiarato e in qualche modo leggibile nel dipinto. Barricate, tematicamente vicino ai soggetti del primo periodo, è un quadro dove ogni elemento è attentamente considerato e studiato, e in cui la materia pittorica è lavorata per zone a pennello o con la spatola, con grande sapienza costruttiva e spaziale. Due altri titoli – ma, avverte Zocchi “in generale i titoli non sono così importanti” – Volo e Volo onirico indicano l’intenzione di travalicare la realtà per tentare di assaporare il profumo dell’universo e un approccio con l’assoluto.

In mostra ci sono anche alcune opere grafiche, davvero belle, per lo più pastelli ad olio su cartone, originali per la tecnica del bastoncino usato in orizzontale.

In conclusione possiamo dire che nelle opere di Zocchi ci sono sempre elementi di ordine e caos; mai che il nostro occhio possa riposare, perché sarebbe il tradimento di quell’istanza etica che impone all’artista di occuparsi del mondo circostante, di non chiudersi in un puro estetismo. Questo per Carlo Zocchi vorrebbe dire rinnegare il proprio passato di pittore, rinunciare al messaggio sui grandi temi della condizione umana, del potere, della libertà e della poesia. E lui non lo fa. Resta un pittore del suo tempo, dentro la sua epoca e con una profonda convinzione sull’arte che lo differenzia da molti pittori contemporanei, ma che lo avvicina ad altri: l’opera – per questi artisti – innanzitutto deve essere bella. E non sembri banale questo aggettivo. Il bello qui è inteso come equilibrio, armonia che si raggiunge con fatica e tanto lavoro, le cui tracce restano leggibili sulla tela. 

Milano, gennaio 2018

 

 

Estratti da altre recensioni

 

Paesaggi in cui perdersi, viaggiare, paesaggi della mente dove lasciar correre i propri pensieri. Prospettive luminose, architetture di luce e colore. Quello che conta è come sono stati concepiti: con abile maestria tecnica, ma anche sulla base di stati d’animo, di ricordi che riaffiorano sulle tele e s’imprimono evocando la passione per i viaggi, la montagna, la musica. E se in un’opera si riescono quasi a percepire gli odori di una terra quale è l’India, con le sue luci calde, il clima umido, gli odori di spezie e d’incensi, altrove si trovano toni di azzurri, blu e bianchi glaciali che portano la mente tra le nevi perenni del poli e delle più alte montagne. Laddove il grigiore fa da padrone ricordando  metropoli congestionate dallo smog, ecco che compare nel mezzo della composizione un barlume che sprigiona senso di sicurezza, protezione. Siamo già altrove: l’idea corre ad un rassicurante rifugio incastonato tra picchi innevati ed impervi, si scorge il sentiero da percorrere per arrivarci. Il sentiero dei nostri pensieri, dove a guidarci sono le sapienti pennellate dell’artista.

Veronica Riva, 2011

Una pittura rarefatta e compositivamente accattivante, ragionata e geometricamente costruttiva, dove l’incontro felice tra il colore e la forma trova nel loro perfetto incastro la sua massima espressione. Una pittura che va goduta e centellinata senza la preoccupazione di trovarvi un senso o una storia. Un artista che è riuscito a portare alle estreme conseguenze quello che è il senso arcano dell’arte: trasmettere delle emozioni, delle sensazioni eterne, senza tempo né luogo.

Antonio De Robertis, 2009

Dal rigore costruttivo del realismo astratto che contraddistingue e domina la prima fase lontana del suo lavoro, al lampo di luce, all’accordo finissimo sul filo della partitura musicale interpretata dal violino di parte delle cose che vediamo oggi, ai luoghi che la sua fantasia elabora sui prodotti degli input quotidiani della cronaca, mondi e luoghi assolutamente visionari che germinano e si costruiscono con il prevalere di alcuni colori e secondo atmosfere ricche di segnali e di attese.

Carlo Bassi, 2007

Una pittura ricca di spunti quella di Zocchi che, indubbiamente, vive di un costante e poderoso equilibrio sia nelle grandi opere a olio, chiara testimonianza di una conoscenza tecnica sopraffina, sia nelle opere grafiche che si accompagnano in modo straordinario alle prime costituendone un prezioso continuo.

Michele Govoni

“La Nuova Ferrara”, 2005

 

È una pittura di tono, meditata e controllata tecnicamente, ma non artefatta o bloccata su aridi equilibri compositivi, piuttosto percorsa da risonanze, fremiti, guizzi e tensioni lungo i margini dei piani spaziali che si sfaldano e compenetrano in movimenti cromatici, laddove il mezzotono di un piano si accende di improvvise e fulgenti saturazioni.

Gabriele Poli, 2005

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